La formazione della poetica arcadica e la letteratura fiorentina di fine Seicento (1954)

La formazione della poetica arcadica e la letteratura fiorentina di fine Seicento, «La Rassegna della letteratura italiana», a. 58°, serie VII, n. 4, ottobre-dicembre 1954, poi in W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963.

LA FORMAZIONE DELLA POETICA ARCADICA E LA LETTERATURA FIORENTINA DI FINE SEICENTO

Nella formazione della poetica arcadica, su cui rimangono fondamentali le osservazioni del Croce e del Fubini, con la loro interpretazione storica del fenomeno arcadico liberato dalle diagnosi polemiche preromantiche e romantiche e valutato nel suo essenziale significato di una ricostituzione della tradizione letteraria, di una nuova attenzione alla dignità e organicità dell’espressione, sollecitata dagli stimoli della nuova cultura razionalistica[1], mi sembra che debba essere convenientemente calcolata l’importanza particolare della letteratura e della cultura fiorentina di fine Seicento.

Certo le caratteristiche del rinnovamento del «buon gusto» e la maggiore ricchezza e organicità di una poetica che si articola entro una complessa problematica di cultura e di pragmatiche proposte teoriche, con le diverse interpretazioni della tradizione italiana, con i diversi esempi di modelli, con il generale richiamo al culto dei classici, con la distinzione manfrediana del linguaggio poetico da quello prosastico, con le importanti discussioni sui rapporti fantasia-ragione, che implicano possibilità feconde di nuovi pensieri estetici attivi ed efficaci, in Italia e fuori, meglio si possono cogliere in anni piú tardi. Quando i diversi elementi locali di cultura antibarocca si unificano nella repubblica letteraria di Arcadia e una piú precisa coscienza del rinnovamento arcadico corrisponde a piú precise e feconde formulazioni teoriche, a cui i letterati toscani di fine Seicento non portano veri contributi rimanendo su di un terreno piú empirico, ben lontani dalla complessità e profondità di interessi estetici e filosofici di un Gravina o di un Muratori.

E tuttavia, avendo ben chiaro tale limite, penso che nel distacco dal gusto barocco e nella fase di formazione della poetica arcadica l’attività dei letterati toscani di fine Seicento debba considerarsi di grande importanza: proprio nella direzione di un nuovo contatto con la tradizione italiana e classica e soprattutto nelle condizioni di una reazione concreta anche se poco conclamata e poco approfondita esteticamente, nell’incontro fra un senso non barocco della cultura e della vita, fra esigenze di aderenza alla realtà e di razionale chiarezza, di fedeltà alla verità scientifica in un assiduo impegno sperimentale, ed esigenze letterarie e linguistiche di correttezza, di comprensibilità, di ragionevole e socievole comunicabilità, di organico accordo fra cose e parole, di continuità e compiutezza della espressione letteraria: tutte qualità che saranno caratteristiche nello sviluppo della poetica arcadica. E calcolando sia lo scambio attivo fra quel centro culturale e altri centri antibarocchi come Milano, nelle relazioni Redi-Maggi, sia l’attiva presenza, diretta e indiretta, del Menzini e del Filicaia nella Accademia reale di Maria Cristina e poi nella vera Arcadia e nel calcolo diplomatico e pragmatico del Crescimbeni, nel quadro eclettico ed accogliente della sua riforma. Anche se in quella prevarrà, accanto alle esigenze piú alte e neoclassiche del Gravina (operanti piú in profondo e solo parzialmente assimilate da Metastasio e Rolli), la linea del petrarchismo riformato con il rilievo brillante del Di Costanzo e il gusto melodrammatico-miniaturistico, a cui pure non furono estranei proprio i sonetti anacreontici, mitologici e pastorali del Redi e del Menzini.

La posizione del gruppo fiorentino è soprattutto notevole per la sua compattezza e, nei suoi limiti piú angusti di empirismo e di pratica letteraria non appoggiata a salde premesse estetiche, per la sua schietta, naturale contrapposizione al barocco (meno volontaria e meno ardita, ma anche in pratica meno confusa e oscillante fra ripresa di motivi tardobarocchi e precisi fermenti nuovi, di quanto avvenga nell’Italia settentrionale, e certo piú positiva di quanto sia la semplice reazione di sdegno e satira del Rosa), derivante da una piú generale condizione di cultura. Fra la tradizione galileiana rinvigorita dalle nuove influenze del pensiero sperimentale europeo (l’Accademia del Cimento fondata nel 1657), la continuità delle esigenze linguistiche della Crusca, rinnovata, pur nel suo scarso vigore teorico, dalla maggiore coscienza ed orgoglio della propria tradizione, e lo studio dei classici che nella Università di Pisa aveva mantenuto, nella generale decadenza umanistica del Seicento, una certa, se pur piuttosto passiva, continuità[2].

Lo spirito attento e critico, umanamente vivace e spregiudicato degli scienziati-letterati fiorentini (se pur chiuso da certi limiti accademici e da un conformismo ufficiale che inibisce loro un piú ardito passaggio alla critica dei massimi problemi e che si fa piú sentire nell’ultimo Seicento – ma in contatto con quel bisogno di serietà, morale, spirituale, religiosa che era pure un motivo della reazione all’epoca barocca, alla sua «lascivia», alla sua «ipocrisia») rianimò le vecchie accademie fiorentine, stimolò nelle loro discussioni e riunioni un piú acuto piacere di socievolezza, una piú forte ripresa della tradizione burlesca fiorentina e toscana. La quale era pure una istintiva reazione alla serietà piú compassata e tetra di certo costume barocco e si accordava con un piú forte interesse linguistico, con una duplice attenzione al parlato popolare, magari nel piacevole letterario della parodia rusticale (le commedie rusticali del Fagiuoli o il Lamento di Cecco da Varlungo del Baldovini, con tutti i loro limiti accademici e stenterelleschi), e alla tradizione illustre rinsanguata dallo studio piú attivo dei classici latini e greci. E che insieme portava nella letteratura una maggiore attenzione alla realtà minuta e concreta, sperimentata e tradotta nella loro prosa scientifica dalla quale passavano nello stesso linguaggio poetico, specie nelle sue forme scherzose e piacevoli piú disposte ad accoglierle, quelle qualità di chiarezza, di ordine, di particolareggiata evidenza, di nitido rilievo, di incontro di cose e parole, di organicità naturale e razionale, che si distinguevano dall’enfasi e dal concettismo, dal lusso verbale, dalla sottigliezza di un linguaggio adeguato ad un costume mentale sofistico fra erudizione pedantesca e bizzarra ed evasione nella ricerca dell’effetto e della meraviglia.

La cultura sperimentale fecondava, in uno stretto contatto fra scienziati, letterati e linguisti, spesso coesistenti nelle stesse persone, la ripresa letteraria della tradizione, l’amore per una lingua viva e tradizionale (è l’epoca della nuova edizione del Vocabolario della Crusca), il nuovo studio dei classici applicato in quelle traduzioni di fine Seicento che proprio nell’ambiente fiorentino costituiscono uno degli elementi essenziali del distacco dalla letteratura barocca e la prima base di quel classicismo che è coefficiente caratteristico della poetica arcadica, anche se la sua efficacia maggiore si svilupperà nel pieno Settecento rispondendo alle nuove esigenze del didascalismo e dell’edonistico figurativismo sensistico-illuministico.

Sono di quest’epoca la traduzione lucreziana del Marchetti e le numerose traduzioni di Anacreonte del Corsini, Marchetti, Salvini, Régnier Desmarais (un francese toscanizzato), che, a parte l’indicatività dei testi tradotti (la scelta di Anacreonte è ben elemento di legame fra il sonettismo del Redi e del Menzini e l’Arcadia vera e propria, ed esprime, fra galanteria ed eleganza, la tendenza istintiva di una società volta ad una animazione vitale e ad un rilievo di aspetti piacevoli della realtà umana), interessano in generale per il valore di appoggio concreto – non solo lettura, ma traduzione – alla ricerca di un linguaggio moderno e classico, per la volontà di fedeltà al testo, cosí diversa dal travestimento e dal «perfezionamento» moderno barocco (si pensi al Pindaro dell’Adimari che è pure una delle rare traduzioni, e non imitazioni, secentesche di classici, anch’essa di ambiente toscano)[3], per la precisa testimonianza di un culto attivo dei classici che si congiunge – sia pure con un interesse prevalentemente linguistico, che è poi l’interesse che piú accomuna i letterati fiorentini a scapito di interessi filosofico-estetici veri e propri – a quello della tradizione italiana di cui l’epoca barocca aveva sostanzialmente trascurato o deformato la lezione e la continuità.

Ben diversamente valide saranno le giustificazioni critiche e pragmatiche del nuovo amore per l’Ariosto nel Gravina, ben piú intenso e ricco, pur nei suoi limiti, sarà il culto del Petrarca in Arcadia, ma è in questo ambiente fiorentino, fra Crusca, Accademia degli Apatisti, lezioni accademiche del Salvini, e scambi epistolari del Redi e degli altri letterati-scienziati, che questi poeti vengono nuovamente studiati (si pensi invece per l’Ariosto alla incomprensione del fiorentino e cruscante Fioretti in pieno Seicento) e ammirati soprattutto in quelle qualità di limpidezza formale e linguistica, di organicità espressiva, di aderenza fra sentimento e parola, che, sullo stimolo della tradizione cinquecentesca e galileiana e nelle loro esigenze particolari di lucidità razionale e di concretezza sperimentale, questi scrittori ricercavano, in contrasto con un gusto, un linguaggio, una mentalità considerata «barbara», lontana da ragione e natura, svogliata e bisognosa di eccitazioni innaturali, artificiose.

Cosí la posizione prearcadica della letteratura fiorentina e toscana dell’ultimo Seicento si avvantaggia della particolare sollecitazione di una cultura scientifica per cui il «buon gusto» (l’insegna sotto cui nasce l’Arcadia) è naturalmente l’equivalente del buon discernimento, del buon criterio di giudizio[4], di uno spirito critico esercitato nella scienza e tradotto in caratteri di vita e di mentalità generale. Spirito critico che andrà sí spegnendosi nella involuzione del regime di Cosimo III e degli ultimi Medici (e la cultura toscana avrà una stasi proprio quando altre culture regionali all’inizio del nuovo secolo si svilupperanno piú attivamente, e l’Arcadia toscana sarà povera cosa di fronte ad altri centri italiani, soffocata come sarà dai peggiori caratteri accademici, diversamente attivi, pur nei loro limiti, in questo primo periodo), ma che, nell’epoca che ci interessa, superò gli aspetti piú negativi di grettezza e di angustia della sua «prudenza» e permise alla letteratura fiorentina di rappresentare un elemento promotore di primo ordine nella preparazione e formazione del gusto arcadico.

Fra i letterati-scienziati fiorentini e toscani varie sono le figure che meriterebbero di essere considerate dal punto di vista da noi indicato: Lorenzo Bellini, celebre anatomista e letterato, consigliere di giovani scrittori e autore della Bucchereide e di sonetti apprezzati in Arcadia; Alessandro Marchetti, specie con la sua traduzione di Lucrezio che, pur agendo piú efficacemente in pieno Settecento quando fu pubblicata dal Rolli, circolò manoscritta fra i suoi amici e rappresentò la punta massima dell’audacia di una cultura timorosa e incapace di passare dal campo della scienza alla filosofia e alla religione (conferma dunque anche dei limiti pesanti di questa cultura)[5]; Lorenzo Magalotti, la cui posizione complessa e originale esigerebbe uno studio particolare dei suoi molteplici interessi[6], del suo significato di «filosofo morbido» legato a certe raffinatezze secentesche e pur non privo di certo sensismo avant-lettre che fece accettare in Arcadia, malgrado fiorettature piú preziose, certe poesie descrittive (La sorbettiera, La profumiera ecc.) e alcune sue anacreontiche, anche per una melodica agevolezza e un pacato brillare di immagini, aderente al rilievo di una precisa realtà[7].

Ma per la sua posizione al centro di questo gruppo e per il suo valore di precisa e media indicazione dei motivi prearcadici che qui ci interessano, val meglio fermarsi sul Redi e descrivere in lui il particolare esito del contatto fra scienza e letteratura e la costituzione in lui di premesse letterarie svolte dal Menzini e da questo piú direttamente offerte al circolo romano da cui sorse l’Arcadia.

Chiaro è anzitutto il suo valore di maestro e consigliere di letterati piú giovani; ed anzi, tutto l’ambiente fiorentino e toscano prearcadico e arcadico fra scienza e letteratura (Magalotti, Bellini, Averani, Viviani, Nomi, Menzini, Filicaia, Forzoni, i due Salvini, Marchetti, ecc.) può essere studiato attraverso le relazioni con il Redi nel suo ricco epistolario, negli accenni del Ditirambo (e nelle annotazioni a quello dello stesso Redi), nei riflessi delle sue poesie sugli altri scrittori dell’epoca[8]. Tutto il suo epistolario è pieno di consigli, di elogi, di censure ad altri letterati, a cui soprattutto il Redi raccomanda «la evidenza e la chiarezza», elogiandole ove le trova, sospirandole dove sono assenti e indicandone la difficoltà e la rarità. Cosí in una lettera al Maggi in lode del De Lemene[9] ne esalta la «purità» e la «evidenza», e al Magalotti scrive: «Ma questa benedetta facilità la dà ai poeti il fato imperocché il nostro sudore molte volte non arriva ad ottenerla...»[10]. Mentre a Maria Selvaggia Borghini dà consigli minutissimi sul «concatenamento» dei versi, sulla regolarità grammaticale frutto di lettura e di uso, sul sonetto che deve essere «ben disteso» e aderente «come un vestito senza crespe e grinze»[11]. E al Nomi scrive lunghe lettere sull’opportunità di singole parole, sulla preminenza di chiarezza ed evidenza anche nella stessa «nobiltà», e sul bisogno di «chiarire o schiarire ogni doppio senso e ambiguità»[12].

Queste preoccupazioni letterarie, il cui valore consiste proprio in una nuova attenzione allo strumento espressivo linguistico e nell’importanza data a qualità che appaiono in netta contrapposizione con la magnificenza ed astrattezza barocca, sono nel Redi sostenute da una naturale tendenza del suo animo e della sua nitida intelligenza, cosí civile e socievole[13], ad un rilievo minuto e compiaciuto degli aspetti sempre interessanti e piacevoli della realtà.

E questa si rivela spontanea e regolare, animata e creativa allo sguardo acuto ed amoroso dello scienziato ed offre la sua ricchezza di impressioni immediate, genuine e salde al letterato che le traduce – non le tradisce – nel suo linguaggio aderente, organico, chiaro, preciso ed agile. L’amore dell’evidenza nell’esperienza, della realtà nel suo farsi perpetuo e nella sua rivelazione all’intelligenza curiosa ed attenta, anima la prosa rediana, prima e piú importante espressione del suo animo, ma non separata da quelle minori esperienze poetiche che portano nel linguaggio poetico le esigenze essenziali di questo spirito non piú barocco, chiaro e critico, brioso ed attento.

Per la prosa si pensi soprattutto a quelle Esperienze intorno a cose naturali in cui esperienza e ragione – che oppongono sempre in queste lettere-uomini «savi» a ciurmatori e maghi – si alleano in un entusiasmo lucido e senza astio o boria[14], che si traduce in un ritmo limpido e brioso, aderente al processo stesso dell’esperimentare e del conoscere la realtà.

Nascono cosí quelle avvincenti narrazioni di esperienze che adeguano nel movimento della prosa un divenire di verità e realtà, cosí interessante e letificante per lo scienziato e per il letterato. Come nell’esperienza delle pietre fatate e dei galli avvelenati, nella storia del soldato fatato e del maestro scornato, o nell’osservazione degli insetti che nascono dalla putrefazione: «Addí 19 aprile; nelle giunchiglie odorate di Spagna in capo a due giorni io vidi minutissimi vermi, che nel mese di maggio divennero piccolissimi e neri moscerini con l’antenne corte in testa, e cosí veloci e cosí lesti che pareano il moto perpetuo»[15]. In cui il ritmo rapido e limpido e minuto rispecchia questo gusto dell’occhio e dell’intelligenza che vede (e sollecita) animazione e vita sprigionarsi dappertutto in proporzioni minuscole e precise e se ne compiace non con la meraviglia della novità bizzarra (che è spesso il gusto del Bartoli), ma anzi per la riprova delle leggi «solite e consuete» della natura, della loro spontaneità e razionalità.

Come in una lettera al Lanzoni[16] in cui una ispirazione quanto mai ragionevole e sperimentata si esprime in un animato quadretto miniaturistico che pare anticipare nella prosa rediana il movimento minuto ed agile della piú tipica arte del primo Settecento arcadico-rococò: «Io poi confesso di essere del suo parere che sia falsissimo che i camaleonti vivano d’aria, mentre le posso con la mia solita ingenuità attestare, che tagliatene diversi alla presenza d’amici, manifestamente ho scoperto i loro ventricoletti pieni di animalucci ed erbette minutissime, i quali con prestezza incredibile, come io penso, con una lor lingua afferrano e inghiottiscono».

Questo senso di evidenza, di movimento e di brio si ritrova anche nei sonetti (oltre che nel Ditirambo[17]), che piú direttamente ci interessano per la storia dell’Arcadia con il loro valore di schema valido per il Menzini e poi per lo Zappi sulla via del sonetto anacreontico e con la loro esemplarità di agile miniaturismo, di organicità evidente e chiara, ma non insipida e smorta. Ché proprio su questo punto il Redi piú insiste nelle sue numerose autocritiche: chiarezza, misura, ripudio di concettismo e di abuso di metafore, ma non correttezza senz’anima; e nulla piú odia il Redi di un sonetto «melenso» o «lonzo»[18], cioè stentato e floscio.

I migliori esempi della sua maniera sciolta e briosa sono appunto nei sonetti anacreontici, non in quelli encomiastici o platonizzanti piú ricchi di residui barocchi anche se smorzati, piú lontani dal suo «naturale», come diceva il Magalotti in una lettera all’amico del 25 febbraio 1679[19], in cui, dopo un elogio piú convenzionale per una fredda, decorosa poesia encomiastica, esce in lodi entusiastiche di fronte al sonetto Già la civetta preparata e il fischio, riconoscendovi il poeta piú genuino («Che proprietà di epiteti, che naturalezza!... Tutto è pieno di proprietà e di costume divinamente espresso») e sottolineando il pregio di «affetti casti, castissimi» ma «finalmente amorosi» e cioè sensibili, caldi, evidenti, non astratti e metafisici.

Il sonetto citato dal Magalotti è effettivamente un notevole esempio di questa maniera piacevole ed agile in cui colpisce, nel quadretto animato e grazioso, nell’inclinazione cantabile e sorridente, l’organicità del componimento, la misura e l’articolazione snella e salda delle varie parti in movimento, sino al finale in cui la galanteria e il sorriso si risolvono in un moto piacevolmente patetico e melodico ben diverso dalle trovate sontuose e cerebrali dei finali di tante poesie barocche:

Già la civetta preparata e il fischio

Amore aveva ed il turcasso pieno

di verghe infette di tenace vischio,

e d’amoroso incognito veleno

e perché fosse a’ cuor piú grave rischio,

lacci e zimbelli racchiudea nel seno;

e reti d’un color cangiante e mischio

tutto lo zaino suo ingombro avieno.

E quindi al bosco ad uccellare uscito

il malvagio e perverso uccellatore,

prese di cuori un numero infinito.

Altri uccise di fatto, altri in l’orrore

chiuse di ferrea gabbia e a questi unito

or piange e piangerà sempre il mio cuore.

Anche quando il rilievo del finale appare piú esplicito, in realtà siamo ormai lontani dalla pointe, dal concetto barocco[20], e nell’organismo agile e chiaro del sonetto («senza crespe e senza grinze»!) una vivacità scherzosa e leggera richiede un finale piú mosso (contro le forme «melense» e «lonze»), ma ben legato al movimento e all’equilibrio di tutto il componimento.

Come in quest’altro sonetto in cui sarebbe errato avvertire un vero giuoco barocco su «pianto» e «sangue». Tutto è volto in sorridente leggiadria, in movimento leggero e compiaciuto della sua facilità vivace, cosí riuscita specie nella prima quartina davvero esemplare per questa letteratura desiderosa di un movimento animato, evidente, chiaro, senza sforzo e durezze:

Io vidi un giorno quel crudel d’Amore

per la foresta affaticato e stanco,

con l’arco in mano e la faretra al fianco

in abito legger di cacciatore.

Tutto quanto grondava di sudore,

nudo mostrando il destro lato e ’l manco,

e si dolea di non trovare unquanco,

per ristorar la sete, un fresco umore.

Io pietoso gli offersi il pianto mio

che, se ben caldo, e forse amaro alquanto,

era piú proprio d’ogni fonte o rio,

ma quei, che porta d’ogni tigre il vanto,

ferendomi d’un dardo acerbo e rio,

voglio il sangue, gridò, non voglio il pianto.

La voce che legge convenientemente l’ultimo verso attutisce naturalmente il grido di Amore[21] e lo scioglie in un sorriso e in una sfumatura di canto che non sono incoerenti nel quadretto prezioso e piacevole, in queste varie rappresentazioni mitologico-anacreontiche della vicenda amorosa, priva di un vero accento sensuale[22], tradotta, nel suo senso di letizia e di lieve calore edonistico, in nitidi quadretti fra apertamente scherzosi e lievemente patetici.

Cosí in questi sonetti galanti conta soprattutto, nel loro risultato di fluidità e di articolazione agile e scherzosa, la capacità di un lieve, ma sicuro svolgimento poetico, di un movimento melodico e figurativo cosí chiaro e assolutamente comprensibile[23], in cui si traduce un senso della vita mediocre, ma piú pacato e libero, una tensione ad una minuta ed elegante realtà legata a tutto un nuovo spirito che è fuori ormai dalle piú tipiche condizioni della civiltà barocca e che, quando ne riecheggia un certo gusto di spiritosi rilievi e di dinamismo concettistico, li riduce effettivamente in animazione sorridente, in tono piacevole che spegne il caratteristico scoppio del concetto, il brillare autonomo e quasi maniaco della metafora. E una maggiore finezza spirituale, un piú acuto sguardo intellettuale, che distingue e chiarisce i rapporti delle cose e delle parole, che fa coincidere piú attentamente colori suoni e sentimenti nell’organismo espressivo, usufruendo nuovamente dell’esempio della tradizione come scuola di precisione, perspicuità, ordinata evidenza, corrispondono a quella disposizione di interesse animato e pacato alla vita concreta, a quell’amore di natura e ragione, di ragione ed esperienza che nella scienza sperimentale fiorentina aveva il suo appoggio piú sicuro.

Il rappresentante piú schiettamente letterario (anche se educato fra scienza e filosofia morale) di questo ambiente di rinnovamento prearcadico fiorentino[24] è Benedetto Menzini, la cui esperienza letteraria vale come sicuro incontro dei modesti risultati delle sue poesie e del suo programma letterario in una coerente direzione di gusto che media chiaramente le posizioni della cultura fiorentina in una base piú esplicitamente letteraria e consapevole, essenziale alla nascita dell’Arcadia.

Altre personalità contemporanee poterono in Arcadia venir contrapposte a lui come piú ricche di motivi poetici, di forza immaginosa e di fermenti morali, altri critici e autori di programmi poetici sono certamente ben piú interessanti di lui, cosí modesto, empirico e privo di vero mordente teorico-critico, ma la sua posizione, fra esempio di discorso poetico e proposta di gusto, è senza dubbio importante nella formazione della poetica arcadica e rappresenta non solo il legame fra cultura e letteratura nell’ambiente fiorentino e fra questo e l’ambiente romano entro cui sorse l’Arcadia[25], ma addirittura l’anticipo, la prima base media di accordo tra l’opposizione piú generica al barocco e le esigenze della nuova poetica, specie nei suoi ideali stilistici e linguistici presenti nelle sue poesie, nella Accademia Tusculana, nell’Arte poetica.

E proprio questa, pubblicata a Roma nel 1688 («per fine di opporsi alla corruttela del secolo»), veniva a precisare esigenze fino allora piú vaghe, parziali e non sufficientemente legate tra condanna di vecchio e premessa di nuovo, si inseriva con maggiore chiarezza fra i nuovi tentativi poetici di Maggi, De Lemene, Filicaia, fra le prime discussioni romane di Crescimbeni, Leonio, Gravina e Guidi, e presentava, in una esposizione prudente ed efficace (di cui il Croce apprezza la capacità di dire «cose sensate» e di dirle «assai bene»[26]), i punti fondamentali del nuovo gusto contrapposto decisamente, e con chiara coscienza del distacco avvenuto, alle caratteristiche del gusto barocco. Il disgusto per la poesia barocca si esprime in una chiara condanna ed in una satira che non rimangono però fini a se stesse, conducendo alla postulazione di un nuovo gusto poetico, che si rafforza proprio nella consapevolezza della sua novità e soprattutto dell’importanza del suo contatto con la grande tradizione del passato[27].

Cosí come nel Menzini è già chiara la coscienza di quanto la nuova poetica sia frutto di un nuovo atteggiamento spirituale e culturale, di una nuova «sanità», di un nuovo senso di valori morali e intellettuali, in realtà assai modesto e mediocre, ma lucido e convinto della sua superiorità e della sua capacità di costituire una base umana e civile alla letteratura. Una nozione nuova di «saggezza», di un buon senso ragionevole e non privo di fervore morale, sostiene cosí l’amore della evidenza e chiarezza espressiva che domina l’Arte poetica menziniana.

Questo ideale del «savio», dell’uomo ragionevole e consapevole della sua intimità e della sua relazione con gli altri (posizione essenziale nella Accademia Tusculana, lungi dalla posizione del «misantropo» e da una dissipazione sensuale ed orgogliosa), è alla base di una concezione della poesia, civile e socievole, che vuol reagire alla «lascivia» secentistica e giustificare un accordo particolare tra animo poetico e morale, fra letteratura, cultura ed erudizione, fra misurata fruizione della vita ed espressione poetica ugualmente misurata, animata e saggia. Ideale morale e letterario[28] che culmina nella «prudenza» del buon gusto e del buon uso e che appare importante nella ripresa postbarocca, di misura, equilibrio, attenzione alle cose e alla realtà morale (anche se è certamente ben piú mediocre dell’ideale complesso di un Muratori e di quello piú sofferto e meditato di un Maggi). E della poesia, a cui si chiede l’alimento delle «morali discipline» e della nuova cultura di origine scientifica e razionalistica tanto elogiata nella Elegia XIV al Bellini, si riconosce, nell’Apologeticus, sive de poësis innocentia[29], la naturale forza di educazione, soprattutto per la sua lezione di purezza e di raffinamento spirituale necessari ad una compiuta espressione letteraria.

E se questo ideale di «prudenza», di «saggezza», vive direttamente come tema della sua poesia (piú esplicitamente nelle canzoni etiche o nella Etopedia, piú implicitamente e piacevolmente attraverso il mito pastorale-anacreontico nei sonetti), esso informa insieme la stessa sua educazione letteraria, la sua poetica del buon gusto, che è insieme «buon uso» di natura e ragione, buon senso, buon criterio nella scelta dei buoni autori del buon secolo e del buon linguaggio[30].

La prudenza (che è «madre di ogni leggiadria» come «di tutte le altre virtú è moderatrice»[31]) diviene canone fondamentale nella educazione letteraria come scelta oculata fra tradizione ed uso moderno, tra passato e presente, fra regolarità e spontaneità, fra ragione e natura. Cosí nei riguardi della lingua, nel suo scritto Costruzione irregolare della lingua toscana (in Opere, III), esaltata al solito la «chiarezza» (e si consideri ancora quanto la chiarezza dovesse sembrare valore alto a chi usciva dal barocco e insieme sentiva lo stimolo dei principi razionalistici di «idee chiare e distinte») e messa in primo piano «la preoccupazione di essere intesi», vengono anche giustificate forme irregolari, figure che la grammatica condanna, ma che uso e tradizione di scrittori consentono («ciò sol vuole la consuetudine del toscano linguaggio la quale fa sí che quel che sembra imperfetto, ciò permettendo il consenso de’ buoni, si accetti come perfettissimo ed ottimo»): dunque regolarità, ma ragionevole, e prevalenza dell’uso, dei buoni esempi, del «buon intendimento», del «purgato giudicio» che conferma nella «prudenza» il riflesso di una equilibrata libertà, di un buon senso legato allo spirito moderato, ma critico, che si distingue dalla pedanteria e dalle avventure barocche.

Come, nei riguardi della tradizione e dei classici latino-greci ed italiani (momento essenziale di discriminazione fra Barocco ed Arcadia), il Menzini consiglia una imitazione «non servile, ma gentilissima»[32], un equilibrio fra antico e moderno, una «terza specie di stile» (lui che pur tanto si compiaceva di avere uno stile «che, com’altri dicono, sente dell’antico»[33]: «ché molto giudizio si ha nel trascegliere degli antichi il buono e il bello, e si acquista laude di gentile discretezza nel prudentemente adattarsi al costume che corre. Ed è certamente un bel pregio, per cui e si amano i passati e i presenti non si disprezzano»). Questo equilibrio fra uso ed esempi, fra classici e un parlare familiare invocato a correggere in ogni modo il pericolo dell’affettazione, si ritrova nella stessa descrizione dell’entusiasmo poetico (nel libro V dell’Arte poetica), sentito piú come «un gentil foco», come fervore delicato e nitido, che non come impeto prepotente e tempestoso, e sempre regolato dal «buon giudizio»:

E sí soavemente egli s’interna

nell’intelletto, che ubbidir conviene

a lui, che l’alme a suo piacer governa.

Ma con l’entusiasmo ancor sen viene

pur da natura il buon giudizio: oh quanto,

quanto è l’imperio, ch’ei in Parnaso tiene!

Ei di grand’oro il crin fregiato e ’l manto

siede qual rege, e consiglier fedele

senno e prudenza ognor stannogli accanto.

Né possibil fia mai, che a lui si celi

il buono, il reo; ed al suo sguardo acuto

son tolti dell’inganno i duri veli...

Su questa posizione di misura (e di compromesso fra ragione e fantasia tipico dell’estetica arcadica e presentato alla buona, con buon senso mediocre) il Menzini motivava la sua polemica antibarocca, la sua parodia del fraseggiare barocco tanto piú riuscita in quanto si stacca in un contesto di discorso pacato, entro un ritmo agevole e chiaro, come nella satira IV:

Via seguitiam; col fulmine tremendo

mandò in pezzi di Flegra la montagna

e ’l baratro a’ giganti aperse orrendo

Giove, che spunta ancor con le calcagna

dell’auree stelle i solidi diamanti,

che son cerchi a cui il ciel fa da lavagna.

Oh che bel fraseggiare, o che galanti

pensieri! Aspetto ancor che sien le stelle

a sferza d’armonia palei rotanti...

Polemica e parodia riportata quasi con le stesse parole nel canto IV dell’Arte poetica, dove il Menzini batte sulla caratteristica contrapposizione di un concetto-situazione, di una organicità del componimento, alle sequenze barocche di «concetti» particolari e di scoppio «spiritoso» alla fine di ogni strofa:

Né men la chiusa cercherai che punga

al fin d’ogni tua strofa, ma il concetto

nobile e grande alle mie orecchie giunga...

Per questo dite voi che ’l buon Petrarca,

Costanzo e ’l Casa dell’Italia onore[34],

a mensa stanno mediocre e parca.

Ma voi bevete le stemprate aurore,

polverizzate stelle e liquefatti

i cieli, che d’ambrosia hanno il sapore...

Alla parodia corrispondevano i precetti della «buona poesia» («perspicuitade», «vaghezza e nobiltade», «nobiltà e chiarezza») collegati all’esempio essenziale del Petrarca, a cui il Menzini riconosce la conquista di quello stile «puro e terso» che è per lui il non plus ultra del buon gusto e l’antitesi del «fraseggiare» barocco, di quella capacità di «un parlar piano e un verseggiar gentile», in cui si esprime la bellezza piú vera, che è «modesta beltà», paurosa di ogni ornamento eccessivo, di ogni esibizione di se stessa.

Il Petrarca, creatore e salvatore della poesia toscana[35], campeggia nel primo libro dell’Arte poetica come esempio perpetuo di dolce eloquenza e di semplice, ingenua grazia poetica:

Dolce d’ambrosia e d’eloquenza un fiume

scorrer vedrai dell’umil Sorga in riva

per quei, ch’è dei poeti onore e lume.

Né chieder devi ond’egli eterno viva;

perché ’l viver eterno a quel si debbe

stil puro e terso che per lui fioriva...

Perché le Grazie semplicette e nude

mostrarsi al maggior tosco e quei comparve

cigno gentil ch’ogni paraggio esclude.

L’espressione poetica è cosí per il Menzini un’opera attenta, «gentile», intorno ad un nucleo di calore e di temperato entusiasmo che nasce da un animo mosso da una tensione delicata, da un mediocre ma sincero amore «di cose belle e buone», di civiltà seria e piacevole (non piú svogliata e bisognosa di forti eccitanti, languida o fastosa), riscaldata dalla presenza di una realtà modesta ed evidente, da un ritmo vitale genuino e minuto, da spettacoli naturali distensivi, ma non inanimati, spontanei ed ordinati come lo spettacolo delle quattro stagioni e il godimento ad esso connesso[36].

Sicché il vero piano della sua esile esperienza poetica (che c’interessa soprattutto come avvio significativo alla tematica e alla poetica arcadica) è quello di un idillismo soave e fragile, tenue e poco vistoso (e in fondo piuttosto scialbo e scolorito), che tende a risultati di semplice eleganza, di sviluppo chiaro e piacevole, nitido e organico. Anche se solo l’Arcadia matura raggiungerà a suo modo quella scioltezza e organicità di costruzione, quell’impasto morbido che qui (come in tutte queste produzioni prearcadiche) ha qualcosa di piú opaco e rigido.

La misura piú adatta alla realizzazione di questa aspirazione ad una poesia semplice ed elegante, all’espressione della saggezza-evidenza come rinnovato dominio attento e pacato dell’animo e della realtà (nelle loro dimensioni piú modeste e minute), è soprattutto il sonetto, che già su piano tecnico appariva all’autore dell’Arte poetica come il mezzo piú proprio per tentativi di «stil puro e terso», di sicura organicità del discorso poetico, di precisa cura stilistica e linguistica.

E la stessa amorosa trepidazione con cui egli parla del sonetto alla fine del IV libro dell’Arte poetica (in accordo con tutto l’amore arcadico per il sonetto, e si pensi al dialogo IX della Bellezza della volgar poesia del Crescimbeni) ci indica il particolare valore che egli vi annetteva e la sua aspirazione ad essere proprio lui il poeta a cui Apollo «dirama» un «ramoscel di alloro» per darlo in dono a un «bel sonetto, che gran tempo il brama». Il sonetto non permette abbondanze e divagazioni, mostra tanto piú chiaramente gli errori di scrittori impazienti e falsamente geniali, di retori che «sortiro un natural confuso e vorrebbon dir tutto», ed offre la possibilità di dar prove di misura e di perfezione stilistica, nei limiti di un breve e sicuro campo di attenzione, allo scrittore fine e saggio che «per lung’uso ed arte / via piú la mano e piú l’ingegno affina»:

In lungo scritto altrui si può far fraude,

ma dentro un breve, subito si posa

l’occhio su quel che merta biasmo o laude.

Ogni picciola colpa è vergognosa

dentro un sonetto, e l’uditor s’offende

d’una rima, che venga un pò ritrosa.

O se per tutto egual non si distende;

o non è numeroso; o se la chiusa

da quel che sopra proporrai non pende.

Ed è in questo schema metrico – in cui la tradizione petrarchista aveva fatto le sue prove insistenti e il Petrarca aveva dato i suoi esempi piú perfetti – che il Menzini raccolse il frutto migliore e piú tardo della sua esperienza letteraria, contribuendo con i suoi sonetti pastorali-anacreontici (che risentono dell’esempio rediano, ma in una piú larga utilizzazione di letture di classici e in una tematica piú schiettamente arcadica) a precisare un tipo di espressione poetica cosí congeniale alle esigenze piú intime dell’Arcadia, all’incontro di piacevole semplicità e di cura stilistica, di organicità in proporzioni minute e nitide, a cui poi scrittori come lo Zappi porteranno una animazione piú sicura, un movimento melodrammatico, che manca agli esercizi menziniani, piú scialbi ed esangui.

Si comprendono cosí le lodi di un Crescimbeni, di un Muratori[37], anche se, piú tardi e fuori delle ragioni contingenti di queste lodi, anche il Foscolo, nei Vestigi della storia del sonetto italiano, poteva rilevare in un sonetto del Menzini genuine qualità artistiche che meglio si valutano e si limitano se considerate su di un piano di poetica, come segni personalmente concreti, di una fase e di una tendenza della poetica arcadica in formazione: «È uno dei piú begli ingegni di seconda sfera della storia della letteratura italiana. Questo è un idillio morale, dettato con lo stile di mezzo conveniente a sí fatta poesia: e par di leggere uno scrittore greco. La maestria consiste principalmente nella spontaneità del dialogo, nella proporzione e varietà delle tre parti del componimento e nella unità in cui si concentra»[38].

La facilità piú discorsiva e prosastica delle Satire e delle Elegie, dei poemetti morali, Etopedia e Del terrestre paradiso, nei sonetti pastorali si commuta in un delicato tono di confidenza e in capacità di svolgimento articolato e preciso, come si può vedere nel sonetto in cui il Menzini espone la sua aspirazione ad ottenere il lauro di poeta:

Dianzi io piantai un ramuscel d’alloro,

e insieme io porsi al ciel preghiera umile,

che sí crescesse l’arbore gentile,

che poi fosse ai cantor fregio e decoro.

E Zefiro pregai, che l’ali d’oro

stendesse su i bei rami a mezzo aprile,

e che Borea crudel stretto in servile

catena, imperio non avesse in loro.

Io so, che questa pianta a Febo amica,

tardi, ahi ben tardi ella s’innalza al segno

d’ogni altra che già stassi in piaggia aprica.

Ma il suo lungo tardar non prendo a sdegno;

però che tardi ancora, e a gran fatica

sorge tra noi chi di corona è degno.

La «correttezza» (la parola cosí diffusa in Arcadia e nel classicismo inglese di Pope e Addison) non si limita qui ad esecuzione esteriore di norme retoriche di bello scrivere, ché il motivo di aspirazione alla poesia si è creato un esile mito, cosí comune e mediocre, ma cosí coerente, nella sua delicatezza fragile, a quella ricerca di suoni delicati e immagini tenui, di uno svolgimento continuo e pacato.

Un tenue velo, ma senza strappi e senza oscurità, un esile filo di voce sommessa, ma continua, e coerente all’aspirazione menziniana ad una calma e gentile espressione («un parlar piano, un verseggiar gentile»), che è in netta antitesi con il fare barocco e che intimamente giustifica la stessa coloritura pastorale, il clima di meditato idillio, piú direttamente presenti nel sonetto scelto dal Foscolo:

Mentr’io dormia sotto quell’elce ombrosa,

parvemi, disse Alcon, per l’onde chiare

gir navigando donde il sole appare

fin dove stanco in grembo al mar si posa.

E a me, soggiunse Elpin, nella fumosa

fucina di Vulcan parve d’entrare;

e prender armi d’artificio rare,

grand’elmo e spada ardente e fulminosa.

Sorrise Uranio, che per entro vede

gli altrui pensier col senno, e in questi accenti

proruppe, ed acquistò credenza e fede.

Siate, o pastori, a quella cura intenti,

che ’l giusto ciel dispensator vi diede,

e sognerete sol greggi ed armenti.

Il gusto di unità e varietà nel concatenato svolgimento di successivi quadri coerenti e graduati (prima il lieve errare fantastico del sogno di Alcone, poi il tono bellicoso, ma poco rumoroso della seconda quartina con il rilievo della spada «fulminosa»[39], infine il tono blando e sorridente del sogno del pastore) si combina con l’amore già tipicamente arcadico del dialogo e delle voci diverse in un incontro ben calcolato e con l’esigenza di un componimento articolato sino al finale modestamente rilevato, in cui si risolve, con una lieve espansione cantabile, il motivo fondamentale della pace idillica.

Risultati evidentemente di scarsa forza espressiva e piuttosto di modesta grazia e di abilità. I quali su di un minimo spunto poetico fan risaltare qualità di cura stilistica che ci interessano soprattutto come segni di un nuovo atteggiamento di gusto e come un tentativo, pur su di un piano cosí mediocre, di ricostituzione del discorso poetico. Tentativo che, appoggiato alla tradizione e alla lingua dei classici, corrisponde ad una nuova attenzione alla vita, ad un nuovo bisogno di portare nel linguaggio poetico quell’impressione di cose reali e naturali che la scienza di secondo Seicento aveva tanto studiato e indagato. Ed è in questa direzione che appare notevole soprattutto il sonetto tanto prediletto dalle antologie ottocentesche per il suo tenue realismo classicistico:

Sento in quel fondo gracidar la rana

indizio certo di futura piova;

canta il corvo importuno, e si riprova

la foliga a tuffarsi alla fontana.

La vaccherella in quella falda piana

gode di respirar dell’aria nuova;

le nari allarga in alto e sí le giova

aspettar l’acqua che non par lontana.

Veggio le lievi paglie andar volando

e veggio come obliquo il turbo spira,

e va la polve qual paleo rotando:

leva le reti, o Restagnon, ritira

il gregge agli stallaggi: or sai che quando

manda suoi segni il ciel, vicina è l’ira.

Si avverte subito, come fece osservare il Croce nel giudizio già citato sul Menzini, che il finale, per quanto coerente esteriormente a un certo tipo di «saggezza» pastorale, è piuttosto insipido e vuotamente moraleggiante. Ma il quadretto in cui è descritto il prepararsi del temporale attraverso i segni di turbamento e di piacere degli animali e della natura è davvero cosa non spregevole e assai interessante nella formazione della poetica arcadica. Né vale richiamare certo realismo pittoresco del Seicento (piú vivo nella pittura che in poesia), perché qui non di gusto del pittoresco si può parlare quanto di un esile ma nuovo amore della realtà, avvicinata con attenzione e quasi con la lieve trepidazione di tentare un nuovo (o rinnovato) accordo fra cose e parole, fra ritmo poetico e ritmo della realtà piú concreta e modesta.

Donde una prima impressione di stento e di esitazione che si muta in quella di una compiacenza dello scrittore che recupera nel suo discorso poetico elementi minuti della realtà e tenta di tradurli nel loro calore, in un’espressione evidente e chiara, regolare e spontanea, elegante e sobria. Sicché questo sonetto cosí gracile e tenue è soprattutto il documento di una poetica ben lontana ormai da quella marinistica, il frutto migliore (anche se cosí povero di succhi profondi) di una lunga esperienza espressiva di cui abbiamo indicato le condizioni e gli ideali conduttori.

I sonetti pastorali sono idealmente al centro (e cronologicamente al culmine) della attività menziniana, ma, sia pure per brevi accenni, sarà bene indicare come il senso di misura e di attenzione, il timore dell’eccesso d’enfasi, di abbandono al lusso delle immagini e al «piacere degli orecchi», tanto accusati nei barocchi, si ritrovi anche nella doppia esperienza di canzoni petrarchesche-pindariche e di canzonette anacreontiche in cui, in coincidenza con la linea che sarà poi tracciata dal Crescimbeni per un rinnovamento di classicismo italiano, il Menzini riprende l’esempio della poesia del Chiabrera riducendolo però in forme piú lineari e secche.

Cosí nelle canzoni moraleggianti, in cui predomina in maniera piú rigida il tema della virtú e della saggezza (che nei sonetti pastorali si risolveva in sentimenti pacati e sorridenti), un disegno preciso, scarno e dimostrativo sembra lo schema piú esterno di quella catena di analisi e sintesi che nel Metastasio sarà animata da un sincero movimento di canto melodrammatico. Si legga questo inizio della III canzone del libro I:

È ver che l’uomo ha sua milizia in terra,

e al non ben fermo fianco,

qual turba al ciel dispetta,

muovan gli affetti inesorabil guerra.

Chi volge in cor di conquistar tesoro,

chi di mirar non stanco

beltà, che l’alme alletta,

chi delle reggie auguste e l’ostro e l’oro

ha di adorar talento:

gioia mista a tormento.

O nella canzone IX per San Filippo Benizi si osservi questa catena di sentimenti e pensieri portata a conclusione rapida e chiara con uno stilizzamento e un raccorciamento di forme tradizionali piú abbondanti ed eloquenti, che testimoniano la tendenza menziniana ad attuare un discorso poetico che per troppa chiarezza e «concatenamento», per timore delle tentazioni del gusto barocco e per una traduzione letteraria troppo immediata delle esigenze di chiarezza e concisione razionalistica, finisce per identificarsi con un semplice schema scarno ed astratto:

Io, se talor consiglio

prendo d’un viver lieto,

dico: Dal mondo allontanar conviensi:

invan, se volgi qui cupido il ciglio

per questo mar, ch’è torbido inquieto,

d’esser beato pensi.

Insipide dolcezze,

e non sani diletti,

t’ingombrano la mente.

A che tante vaghezze,

tanti tenaci affetti,

per poi partir dolente?

Un moderato fervore morale, che si può ritrovare molto piú forte e schietto nel Maggi, si identifica con questo secco gusto di linee rapide, raccorciate, razionali, che sol da lontano e sol come schema possono far pensare all’entusiasmo e all’impegno del Parini di certe Odi (Caduta, Educazione). Come in questo Epodo II della canzone VII del libro II (Varietà delle umane avventure. Richiedersi in istato felice la moderazione e tra le cose avverse la tolleranza):

Dunque nell’alma un tempio

al chiaro esempio

di Natura erger voglio;

e diversi tra lor stringer non meno,

con giusto freno,

vil timor fero orgoglio.

A forza di abolire immagini e metafore, colori ed espressioni sonore, il Menzini giungeva, fuori del migliore campo dei sonetti pastorali, ad una estrema linearità, ad un schematismo che ha pure il suo significato nel distacco dal barocco e nel tentativo di ricostituire il discorso poetico in un’aderenza di chiarezza e di disegno a cui altre tendenze arcadiche contrapporranno (ma dopo aver accettato in qualche modo questa specie di mortificazione del semplice amore dell’immagine e del suono) un maggior bisogno di costruzione ampia, di riconquista, su una nuova base di impeti e di rilievi, di nuova eloquenza poetica.

E si legga ancora, come esempio tipico di questa volontà di linea rapida, di riduzione di ogni colore e di ogni abbondanza, il finale di questa Dafne trasformata in lauro, tema che pur poteva piacere ai barocchi come pretesto di movimento dinamico e di lusso descrittivo, ridotto qui in un disegno breve e fragile:

Disse: ed oh meraviglia!

il delicato viso

perde l’usata forma;

e le tremole ciglia,

e là dove esce il riso,

rigida scorza informa;

del piè fugace l’orma

quivi si ferma e manca

la voce afflitta e stanca.

Tenere fronde i crini,

e son braccia ramose

le di lei braccia al cielo.

Del petto a’ bei confini,

ombrose ed amorose

fan verdi foglie un velo:

passa ad Apollo un gelo,

ma l’aure tempie intorno

va di tai fronde adorno.

Del resto anche nelle canzonette anacreontiche (opera relativamente piú giovanile del Menzini), piú vicine a forme chiabreresche, lo schema secentesco, il tema convenzionale di origine madrigalesca è in realtà modificato dall’intimo nelle linee piú segnate e concise, nel suono piú preciso, meno svagato e gorgheggiante, nella conclusione piú nitida, nell’accordo di parole e musica in una trama chiara di lieve e patetico racconto. Come nella canzonetta V del II libro delle Canzonette[40], in cui l’elemento melodico, cosí importante nella poesia arcadica e qui diversamente vivo che non nelle Canzoni, è però sostanzialmente passato (e sempre piú in Arcadia la presenza del canto sarà assicurata nella sua diversità dal canto barocco da un gusto sempre piú forte di precisione, di evidenza, alimentato dalla nuova lettura dei classici) attraverso un ideale filtro depuratore, attraverso una riduzione in linee nitide e incisive, attraverso un accordo nuovo di immagine figurativa e musicale.

Gli stessi diminutivi, comuni al canzonettismo secentesco ed arcadico, hanno ora diversa precisione e diverso valore (non semplice funzione di gorgheggio, di note saltellanti ed estrose, ma indicazione di quella proporzione miniaturistica che trionferà piú decisamente con il rococò), come lo spirito di animazione piacevole della canzonetta è qui piú precisamente legato ad un nuovo moderato e «prudente» piacere del vivere, e la stessa ornamentazione mitologica e anacreontica di Amorini arcieri ha qui un nuovo significato di suggestione classicistica piú coerente alla richiesta di chiarezza ed evidenza.

Non siamo certo ancora al canzonettismo del Rolli o del Crudeli, in cui la lezione dei classici e l’incontro di figura e canto saranno piú decisivi e coerenti al gusto figurativo del pieno rococò, ma in questa fase di formazione della poetica arcadica (che si può paragonare nelle arti figurative a tentativi di primo rococò o «barocchetto») il distacco intimo dal secentismo è notevole anche nella direzione che – sulla speciale linea chiabreresca – potrebbe offrire maggiori vicinanze e somiglianze.

Ma, ripeto, la tendenza caratteristica di riduzione e di linea chiara ed evidente, che si può osservare con diversi risultati nelle canzonette e nelle canzoni, ha la sua applicazione migliore e piú significativa nei sonetti pastorali, che gli arcadi stessi sentirono come il prodotto piú maturo del Menzini e come la sua offerta migliore al «rinnovamento del buon gusto». Ed è nei sonetti che meglio si ritrovano le qualità di «prudenza» morale ed estetica e di attenzione alle cose e all’espressione stilistica e linguistica che nell’Arte poetica il Menzini propone, alle origini dell’Arcadia, come frutto di esperienza personale, maturata nelle condizioni particolari dell’ambiente culturale e letterario fiorentino.

Queste qualità di «prudenza», di «chiarezza», di organicità del discorso poetico, di cura stilistica e linguistica che Redi e Menzini avevano soprattutto applicato nei loro sonetti già cosí congeniali alla tematica arcadica e che il secondo aveva proposto nella sua empirica, ma efficace Arte poetica, possono ritrovarsi anche nell’altro rappresentante di questa fase prearcadica fiorentina, il Filicaia, che dell’ambiente fiorentino interpretò l’aspirazione piú ufficiale e piú retorica ad una lirica alta, al «fare grande», alla celebrazione solenne di avvenimenti storici e grandiosi, alla ripresa di Pindaro e del Petrarca delle canzoni civili e religiose, che pure il Menzini aveva sporadicamente tentato di attuare sulla scorta del Chiabrera.

Aspirazione certo velleitaria ed estranea alle vere istintive esigenze di un gusto che troverà il suo vero sviluppo nel sonettismo miniaturistico dello Zappi, nel canzonettismo e in quella prepotente inclinazione melodrammatica, che pur usufruí nel Metastasio di una sollecitazione eroica e storica meglio appoggiata alla proposta di poesia mitica e classica del Gravina. Ma aspirazione ben presente nella fase iniziale dell’Arcadia, nella confusa volontà di ricostituzione della poesia dopo l’esaurimento e il rifiuto del barocco, prima che il vero animo arcadico, precisatosi nelle condizioni di una civiltà sempre piú consapevole dei propri termini piú genuini (fra razionalismo e rococò, fra miniaturismo e canto atti a tradurre una dimensione vitale piacevole ed attiva, edonistica e socievole), venisse scartando questi elementi piú grandiosi e confinandoli in esperienze retoriche isolate o riducendoli nella loro particolare funzione di componente inferiore nel trionfo del melodramma[41].

E se questa aspirazione fu piú naturale e a suo modo vigorosa (pur senza mai giungere a tradursi in vera poesia) in altre zone culturali, fra sviluppo di elementi tardobarocchi e sollecitazioni di nuove teorie pragmatiche (soprattutto Guidi e Gravina), essa non mancò di apparir necessaria anche nell’ambiente letterario fiorentino (rinforzata poi dall’incontro di questo con il centro antibarocco, ma animato da velleità grandiose ed eroiche, dell’Accademia reale di Maria Cristina), dove sembrò che il ricostituito discorso poetico, la capacità espressiva rivendicata nel suo accordo fra cose e parole, per povero e superficiale che esso possa apparire, nelle sue qualità di organicità, di chiarezza, di evidenza, dovessero anche tentare prove piú alte, trattare temi eroici e storici, attuare la lezione dei classici non solo nella direzione idillica, ma anche in quella eroica e solenne, unire chiarezza e nobilità, provando cosí, in tutta la loro estensione, l’efficacia delle nuove esigenze di gusto anche in forme piú impegnative di costruzione. Adempiendo cosí anche ad un dovere ufficiale e sociale (glorificare gli avvenimenti contemporanei) e sottraendo al gusto barocco quel «sublime» che il Menzini aveva pur considerato termine alto del poeta purché espresso con quelle qualità artistiche che appunto il gusto barocco sembrava aver dissolto e disprezzato in una temeraria avventura, nel rifiuto della lezione dei classici e della tradizione italiana, nella rottura di quell’accordo fra natura e ragione su cui, in maniera cosí alla buona ed empirica, la Prearcadia toscana aveva fondato il proprio moderato rinnovamento del gusto, la propria fiducia vitale e letteraria, pur nei limiti di un orizzonte mediocre e accademico.

Ed era quel bisogno di costruzione solenne e grandiosa, ma non piú barocca, che (con smorzamento di elementi barocchi e nuovo contatto con forme cinquecentesche e classiche e magari con un moderato dinamismo prebarocco) nell’architettura del tempo caratterizza certe forme di «barocchetto» (Fuga, A. Galilei, Fontana) precedenti al vero e proprio rococò con la sua eleganza piú vivace e animata, con la sua linea piú vibrante e pur nitida e conclusa. Ma il solenne, il grandioso, il nobile e magari il sublime, dovevano fare i conti con le qualità essenziali della «buona arte» (donde l’antipatia di questo ambiente, e dell’Arcadia piú legata a queste esigenze, per il Guidi e per i suoi impeti frammentari e poco legati, per quella immaginosità tetra e ansiosa che parve a taluni il ritorno di un travestito barocco), dovevano nascere su di una base di equilibrio e di prudenza, sostenersi con uno studio attento dei mezzi espressivi, con un recupero di originalità entro il controllo della tradizione.

Tale compito arduo, e in realtà retorico e intellettualistico, parve affidato al Filicaia, la cui enorme fortuna in Arcadia (e poi in tutto il Settecento[42]) si spiega appunto non solo nello scambio fra desideri e realtà cosí forte in un’epoca bisognosa di sentirsi completamente rinnovata in ogni forma di espressione (specie nel quadro eclettico del Crescimbeni), ma in quel riconoscimento in lui di «nobiltà e chiarezza», di altezza solenne e linearità, di «concetto grande» e svolgimento organico e ordinato, di linguaggio alto (con echi biblici, petrarcheschi e classici) e pur chiaro e comprensibile in ogni suo particolare, che particolarmente colpí i suoi contemporanei[43] e lo sottrasse a quel crescente distacco che colpí invece il Guidi e il Maggi[44] proprio perché le qualità propugnate dalla Prearcadia fiorentina vennero sempre piú accettate nell’Arcadia matura (sia pure con tutta una nuova giustificazione teorica e con una nuova funzione di animazione, di miniaturismo e di canto), nella tendenza prevalente che, accanto a motivi ispirativi nuovi e coerenti alla civiltà settecentesca, sempre mantenne e sviluppò il culto della cura stilistica e linguistica, il gusto della chiarezza e della evidenza.

Se dunque non sarà certo il caso di opporre una rivalutazione del Filicaia in sede di valore poetico alla «esecuzione capitale» del Croce[45] e alla giusta squalifica della sua eloquenza storica e patriottica cosí esteriore e inconsistente, si dovrà però precisare (ciò che qui ci interessa) la sua importanza nella formazione della poetica arcadica e la sua sostanziale omogeneità con i caratteri e con le esigenze letterarie che la cultura fiorentina di fine secolo offriva all’Arcadia.

La sua eloquenza infatti, a ben guardare, non è tanto caratterizzata da un atteggiamento convulso e gesticolante, clamoroso e turgido quale fu definito dal De Sanctis[46], quanto viceversa, sotto l’impostazione d’obbligo del poeta profetico, e il movimento delle esclamazioni e delle interrogazioni retoriche, da una sostanziale misura, da una ricerca di simmetria, di ordine, di articolazione chiara e conclusa, di composizione disegnata piú che colorita, di chiarezza anche nell’enfasi, di ragionevolezza anche negli impeti del resto cosí frigidi e deboli.

Si rilegga la stessa celebre canzone Sopra l’assedio di Vienna come esempio della costruzione filicaiana nelle sue forme piú solenni e impegnative. E si verificherà il predominio in essa di uno schema regolare e misuratamente complesso, svolto secondo un «concetto» centrale e generale (e la contrapposizione di un «concetto» generale svolto in articolazioni particolari a quello saldamente collegate, di fronte alla selva di «concetti» singoli e disordinati e con effetti improvvisi e puntuali, è motivo insistente dell’Arte poetica menziniana), grandioso, almeno nelle sue intenzioni, ma chiaro, equilibratamente concluso e suddistinto nelle sue varie conseguenze.

Donde una grandiosità misurata e dignitosa, l’impressione di un edificio ufficiale in cui il dinamismo dell’enfasi vaticinante, dell’attacco volutamente energico, si regolarizza facilmente in linee ampie e simmetriche, sí che le stesse ripetizioni di interrogativi retorici, come nella prima strofa, o di movimenti di meraviglia dolente (il «mira» che apre la seconda e la terza strofa e apre una simile serie di descrizioni e dimostrazioni) o di moduli di rassicurata speranza (i «so» ripetuti della quarta strofa) sono accuratamente, razionalmente disposte e calcolate nei loro effetti di rilievo. Con una simmetria e un ordine che domina e precisa anche le strofe della seconda parte della canzone, articolando i temi di stupore dolente, di falso timore nell’ipotesi di una vittoria turca, di incredulità e di speranza e di certezza nell’aiuto divino, di gioia nella visione della vittoria e della concordia dei principi cristiani (temi tutti scontati in una posizione sentimentale di saggezza e di sicurezza senza ansia e senza dramma), entro movimenti la cui diversa direzione non toglie la sostanziale coerenza di linea, la profonda monotonia, la ricerca di disegno piuttosto che di colore, di chiara composizione, solenne piú per l’ampiezza, dignità, regolarità delle linee, per le loro volute complesse, ma mai spezzettate ed incalzanti, che non per una forza di impeti immaginosi.

Cosí come il linguaggio riproduce dello schema l’essenziale modulo di dignità eletta, moderatamente insaporita di echi biblici e petrarcheschi, e la volontà di «sublime», priva di una vera radice di impeto (piú sincera nell’infecondo e incompiuto scatto del Guidi), si riduce all’atteggiamento ispirato e vaticinante del lirico alto, composto però in un gestire controllato e monotonamente dignitoso: come la sua eloquenza, lontana ormai dal vero turgore barocco, è sempre inscritta in moduli chiari, ordinati, che meglio corrispondono alle stesse caratteristiche dell’animo e al costume del Filicaia.

Animo e costume intonato ad una saggezza composta, e che semmai ha una sua grigia e scialba spiritualità meditativa e pensosa, priva dei movimenti piú piacevoli e vibranti di un Redi, della fragile delicatezza piú animata di un Menzini, ma non priva, entro le condizioni di un costume signorile e ufficiale, di una tenue malinconia, di una vena elegiaca[47] e modestamente affettuosa che si esprime piú direttamente nella discorsività pallida e chiara, sommessa e diluita di certi componimenti familiari e meditativi, in cui (in un ritratto completo del Filicaia che qui viene solo accennato) si potrebbe ritrovare la presenza di una ispirazione minore e piú intima.

Come nei sonetti per la morte di Camilla Filicaia, in cui il ricordo affettuoso si fa piú vivo proprio nel rilievo di qualità umane-socievoli coerenti agli ideali filicaiani di saggezza, di auto-dominio, di compostezza spirituale («e tacer saggio e ragionar cortese / e bontà cauta e libertà prudente»), come in certi componimenti meditativi in cui si può accertare meglio il fondo vero di un’eloquenza poco impetuosa, caratterizzata da un passo poco elastico e controllato, fra una mestizia rassegnata e istintiva e la compostezza del gran signore educato a controllare ogni abbandono, del «saggio» che rifugge da ogni imprudente scatto istintivo[48]. Si potrebbero rileggere poesie come In occasione di uno stranissimo temporale venuto di notte, in cui la meditazione sulla caducità della vita e delle cose terrene trova espressione in un ritmo stanco e grigio, ma sempre ordinato e chiaro, in immagini scolorite anche nei loro punti di vaghezza madrigalesca tassesca e chiabreresca

(Ahi matrigna del mondo

anzi che madre; come puoi tu cose

far sí belle e disfarle in sí brev’ora?

Vago dianzi e giocondo

ridea dell’erbe il volto e rugiadose

perle, piangendo, vi spargea l’Aurora;

or s’attrista ogni fronda e s’addolora...),

o, ad esempio, l’inizio della canzone In lode della Beata Umiliana de’ Cerchi, dove la meditazione del passato si precisa in un tono assorto e pacato, in un discorso lento e grave, indicativo per lo spirito filicaiano, piú genuino certo in queste evocazioni meste e scolorite che nelle piú retoriche commozioni eroico-storiche.

Ma, anche in questi componimenti dove la «nobiltà» è a suo modo semplice e spontanea e non richiede impostazioni piú convenzionali, è pur sempre presente l’applicazione di quelle qualità letterarie che corrispondevano, specie nei loro coefficienti di «prudenza», regolarità, ordine, alle aspirazioni anche morali piú intime del Filicaia e che costituiscono il frutto della educazione prearcadica fiorentina. E che, come abbiamo detto, danno anche alle costruzioni piú ufficiali del Filicaia, alla sua opera di cosiddetto restauratore della lirica alta, il loro carattere piú esemplare (e sostanzialmente piú autentico, pur nei loro limiti di mediocrità e di qualità slegate da una vera ispirazione e nella loro componente di barocchetto prearcadico) per la poetica arcadica. Che in quell’opera accettava la lezione sperata di un possibile accordo realizzabile fra nobiltà e chiarezza, fra «sublime» e regolarità stilistica e linguistica, riconosceva la riconquista, per merito del «buon Polibo», di una zona poetica che la prima Arcadia non poteva lasciare al barocco senza rinunciare alla sua pretesa di completo rinnovamento, di ripresa di tutte le «maniere» dei classici, di restituzione anche della poesia «grande».

E cosí la letteratura fiorentina, mentre portava all’Arcadia un appoggio cospicuo – sia pur surrogato cosí scadente ed equivoco – alle sue velleità di poesia grandiosa, ma «giudiziosa» e regolare, in quello ribadiva la sua offerta di una sua pratica stilistica e linguistica, di ideali artistici e tecnici (tanto piú accettabili perché confermati anche in un’applicazione cosí «illustre»), che il Menzini aveva precisato nella sua Arte poetica e realizzato nei suoi sonetti pastorali in forme piú congeniali all’animo piú vero dell’Arcadia e allo sviluppo della sua corrente centrale.

L’Arcadia, come dicevo in principio, avrà ben altra complessità di motivi, in essa confluiranno le esperienze e le esigenze di altri centri antibarocchi, le reazioni – e le assimilazioni – al pensiero razionalistico europeo, gli sviluppi di elementi tardobarocchi carichi di fermenti morali piú intensi e severi, le riflessioni estetiche e le complesse proposte pragmatiche dei Gravina, Muratori, Maffei, Martello, e il suo sviluppo si articolerà nel primo Settecento con un processo di arricchimento e di chiarimento, di traduzione di esigenze vitali (e non solo dell’aspetto piú convenzionale del costume) della società italiana, ben al di là delle condizioni della Prearcadia fiorentina. Ma l’importanza di questa, nel suo accordo iniziale di cultura e letteratura, nella sua sicurezza di continuazione e ripresa di una tradizione non barocca, nel suo precoce culto dei classici, dei buoni autori, della buona lingua, del buon gusto e del buon discernimento (anche se mediocre ed empirico, eccessivamente prudente e accademico e cruscante) deve pure essere convenientemente calcolata e individuata nello studio della formazione del gusto arcadico.


1 V. B. Croce, L’Arcadia e la poesia del Settecento in Letteratura italiana del Settecento, Bari, 1949, e M. Fubini, Le osservazioni del Muratori al Petrarca e la critica letteraria nell’età dell’Arcadia, e Dall’Arcadia all’Illuminismo, in Dal Muratori al Baretti, Bari 1954.

2 Si vedano in proposito il saggio di A. Mancini, Spirito e caratteri dello studio del greco in Italia, Firenze 1939, e quello di A. Curione, Sullo studio del greco in Italia nei sec. XVII e XVIII, Roma 1941. Del resto a Firenze, dove la Crusca agí in pieno Seicento come elemento conservativo e tradizionale (anche se non vi mancano riflessi del gusto barocco come nel Fioretti) e di spiriti cinquecenteschi e classicistici, la stessa fisionomia architettonica della città subí poche trasformazioni veramente barocche e piuttosto si potrebbero indicare documenti di «barocchetto» moderato, e congeniale alla fase che qui studiamo, specie nella direzione piú solenne, monumentale e ufficiale rappresentata dal Filicaia.

3 Queste traduzioni di Anacreonte di fine Seicento contribuiscono utilmente a precisare i caratteri e i limiti di questa fase iniziale di classicismo prearcadico toscano sia nella direzione di un interesse prevalentemente linguistico di tipo cruscante, sia nelle incertezze fra tentativi di linearità secche e gracili, fiorettature di brio spiritoso e canoro con chiari riflessi chiabrereschi, che denunciano le difficoltà di un gusto in formazione e la condizione di uno speciale momento prearcadico in cui particolarmente evidenti sono le preoccupazioni di chiarezza, ordine, evidenza anche nell’intonazione galante e preziosa risolta in forme di correttezza, ma animata e piacevole, che poterono (con tutte le incertezze accennate) influire fortemente sulla formazione dell’anacreontismo arcadico, collaborando con gli esempi piú interessanti e diretti dal sonettismo anacreontico e mitologico-pastorale del Redi e del Menzini. Naturalmente la fedeltà del tradurre, che tuttavia in generale è nettamente superiore a quella dell’epoca barocca (e che corrisponde al piacere di assimilare in forme proprie, ma con sufficiente rispetto, un mondo che si ritiene illustre ed esemplare), è relativa alle forme generali di un classicismo piuttosto approssimativo ed incerto, con oscillazioni di maggiore o minore libertà di rielaborazione nei diversi traduttori. Il piú fedele, e d’altra parte secco e prosastico, è il Salvini (come il piú abbondante, amplificatore e, in certo senso, piú secentesco è il Corsini), il quale però nel caso di Anacreonte offrí ai suoi lettori due traduzioni: una piú aggraziata e illeggiadrita, una piú letterale e corrispondente al suo generale criterio di traduzioni aderenti e piatte, contraddistinte da un interesse prevalente di arricchimento linguistico-vocabolaristico (quante volte in un dizionario etimologico si deve citare il Salvini accanto a neologismi di origine greca e specie di parole composte) caratteristico di questo ambiente cruscante-classicistico, e da un fanatico, e piuttosto ingenuo e pedantesco, amore di questo grecizzante prearcardico per la lingua e letteratura greca, madre dell’eloquenza e di ogni grazia, come egli dice nella sua Apologia della lingua greca, cosí caratteristica anche per i modi prearcadici e «barocchetti» con cui quella grazia è sentita: «È che egli si entra in un mondo nuovo, in un paese immenso, in un oceano senza sponde, quando s’entra ne’ Greci: tutto vi diletta ugualmente e vi incanta, perché a quella lingua è sortito dal cielo un tal favore, una tal grazia, un genio cosí galante, un vezzo cosí pellegrino, una maniera cosí tenera, cosí toccante e sí viva che il praticare con scrittori di quello è un piacere che non ha fine né fondo» (Discorsi accademici, Firenze, 1695, I, p. 227). Il Salvini fu anche – sempre dal suo punto di vista linguistico ed erudito («combattere con le armi della lingua piú fina la barbarie, con quelle del piú fornito saper l’ignoranza», Prose toscane, Firenze, 1715, p. 171) – presentatore di testi del classicismo straniero (il Catone di Addison) ed elogiatore del Petrarca in numerose lezioni all’Accademia degli Apatisti. Le traduzioni del Corsini, del Régnier Desmarais, del Salvini si trovano raccolte in Anacreonte tradotto dall’originale greco in verso toscano, Firenze, 1723, quella del Marchetti nell’ed. di Lucca, 1707.

4 V. G. Maugain, Étude sur l’évolution intellectuelle de l’Italie de 1675 à 1750 environ, Paris, 1909, che offre ancora utili indicazioni sulla situazione dei vari centri culturali italiani (Firenze, Bologna, Napoli, Roma), specie appunto nei riguardi dello spirito critico nelle scienze e della sua efficacia sul distacco letterario dal gusto barocco, particolarmente valida nel caso dell’ambiente fiorentino.

5 La traduzione marchettiana di Lucrezio è stata studiata recentemente da M. Saccenti, Il Lucrezio di A. Marchetti nella crisi del Seicento, in Dai dettatori al Novecento, «Convivium», 1953, p. 165 ss. In proposito rimando alla mia scheda nella sezione Seicento in «La Rassegna della letteratura italiana», 1954, p. 147.

6 La sua spiritualità tanto piú viva e profonda, la sua forza artistica, la sua esperienza europea, danno al Magalotti uno spicco, un rilievo personale certamente superiore a quella degli altri scienziati-letterati fiorentini (v. il ritratto sensibile ed acuto che ha di lui tracciato E. Cecchi, Carattere del Magalotti, in «Paragone», n. 42, giugno 1953), tanto piú mediocri e limitati anche nella loro vivace e seria esperienza di cultura e di letteratura, tanto piú accademici e provinciali, ma in fondo piú adatti di lui a mostrare le caratteristiche (e quindi anche in ciò che queste han di mediocre e di angusto, e specialmente nel valore e nel limite delle preoccupazioni letterarie e linguistiche, con il peso del cruscantismo, che essi portano in Arcadia) di questa fase prearcadica fiorentina. Sul Magalotti e su di una sua interpretazione interamente «barocca» (e sui limiti di essa) si veda il saggio di W. Moretti e la scheda di F. Croce in «La Rassegna della letteratura italiana», 1957, p. 568 ss.

7 Riportate nel vol. IV delle Rime degli Arcadi, Roma 1717. Sono assai indicative, per la qualifica e l’accettazione arcadica di poesie scritte prima dell’apertura dell’Accademia romana, le scelte fatte delle opere di questi prearcadi, e poi arcadi ufficiali verso la fine della loro vita, nei volumi delle Rime degli Arcadi.

8 E se le sue relazioni toccano anche scrittori ancora chiaramente secenteschi, ma attenti almeno a quella cura di lingua che è cosí al centro dei suoi interessi (Aprosio, Segneri, ecc.), è ben significativo quanto il Maggi gli scriveva (7 aprile 1683, F. Redi, Opere, Napoli, 1778, V, p. 110) circa l’efficacia dei suoi sonetti mostrati ad alcuni giovani «che si van mettendo sulla buona via». Sul Redi si veda ora il saggio di C.A. Madrignani in «Belfagor», 1960, p. 402 ss., che si muove nel preciso ambito della mia posizione.

9 15 agosto 1684, in Opere, V, p. 135.

10 7 marzo 1679, in Opere, VI, pp. 209-210. E in una lettera senza data (Opere, V, p. 68) si scusa dei propri cauti rimproveri al nobile amico per alcuni punti oscuri di una sua poesia giustificandoli con la dichiarazione del proprio tormento di scrittore: «dico questo perché sempre combatto con questa benedetta evidenza!».

11 Le lettere scambiate con questa letterata pisana, poi pastorella d’Arcadia, formano una gustosa corrispondenza che anticipa altri scambi epistolari ispirati alla preoccupazione della chiarezza e precisione stilistica, quale è quello su cui il Croce ha costruito l’acuto e piacevole saggio Gli scrupoli di Belisa Larissea (in Letteratura italiana del Settecento, Bari 1949).

12 16 febbraio 1685, Opere, VI, p. 183.

13 Nella Vita di Anicio Traustio (il Redi) di Salvino Salvini e nella orazione dello stesso Delle lodi di F. Redi (1699) – in Opere del Redi cit. I – tutte le caratteristiche elogiate («Fine discernimento e giudizio», «evidenza, chiarezza e brio», «purità di stile e dolcezza di costume») concorrono in un ritratto del Redi che culmina nel suo carattere di stimolatore di ingegni al buon gusto («Gli altrui studi favoriva, sollevava, promoveva, onde molti insigni personaggi nelle lettere sotto la sua guida e i suoi auspici a eccelso posto di gloria pervennero: col suo finissimo discernimento gli scoperse, e scoperti gli incoraggiò, e incoraggiati gli forní, gli allevò, gli mostrò al mondo», p. 17), e di conversatore esemplare («parea fatto apposta e mandato dal cielo espressamente quaggiú per istillare soavemente ne’ cuori di chiunque gli s’appressava l’amore degli studi e delle lettere, e per ispirare nello stesso tempo l’amore dell’amicizia che per quelle massimamente s’acquista»).

14 Un sorriso sicuro, ma senza sdegno, nasce dal ricorso alla comune ragione e ai dati inoppugnabili dell’esperienza contro le superstizioni dei peripatetici e dei falsi scienziati (la scienza di Don Ferrante!): «Se un uomo o qual si voglia altro animale possa vivere col sangue rappreso nei laghi del cuore e negli intrigati andirivieni e meandri de’ canali sanguigni, lo lascio considerare a chi ha fior di ragione» (Opere, II, pp. 38-39).

15 Opere, I, p. 67.

16 20 febbraio 1693, Opere, III, p. 229.

17 Il Ditirambo va considerato anche in questo gusto di un ritmo riconquistato nella sua naturalezza e nel piacere di un linguaggio vivo, libero ed estroso ma non ingiustificato: fra popolare e dotto, eletto e furbesco, colto nella sua ricchezza di derivazioni e creazioni di sfumature e di precisazioni, di proporzioni diverse, come si vede ad es. nella osservazione delle Annotazioni sul diminutivo difeso contro i francesi (e il diminutivo sarà particolarmente vivo nella lingua arcadica): «Io per me sarei di contrario avviso e crederei che i diminutivi fossero da noverarsi fra le ricchezze della lingua, e particolarmente se con finezza di giudizio e a luogo e tempo siano posti in uso. La lingua italiana si serve non solamente dei diminutivi, ma usa altresí i diminutivi dei diminutivi fino in terza e quarta generazione». (Opere, III, p. 100).

18 V. lettera al Bellini del 25 gennaio 1687 (Opere, VI, p. 251).

19 L. Magalotti, Lettere famigliari, Firenze, 1769, I, p. 229-230.

20 E la Dacier nella sua traduzione di Anacreonte (Parigi, 1681) mette appunto in rilievo nel poeta greco galant et poli la mancanza di ogni pointe, di ogni concetto, e pur la vivacità, lo spirito brioso. Coincidenza di gusto antibarocco (anche se piú barocchetto che precisamente rococò) nella letteratura europea, tra fine Seicento e primo Settecento.

21 Si pensi invece come nelle poesie dei lirici marinisti la trovata finale, il concetto arguto domina tutto il componimento. E anche se si togliessero i titoli espliciti che il Croce ha dato nella sua raccolta di Lirici marinisti (secondo l’osservazione del Calcaterra, Il problema del barocco, in «Questioni e correnti di storia letteraria», Milano, 1949, pp. 475-478), non cambierebbe certo la effettiva natura di queste poesie che vivono soprattutto in funzione della «spiritosa» («spiritata» diceva ironicamente il Villani) invenzione; mentre nel Redi anche certo uso di concettini spiritosi è volto in una intonazione scherzosa ed ironica che è già una forma di consumazione del vero spirito barocco, spesso tetro e forzato persino nell’arguzia.

22 Il Redi, come tutti gli antibarocchi di fine Seicento, rifiuta esplicitamente la poesia «lasciva» (v. il sonetto LXXIV: «Voi che in quel sacro ed onorato monte / le caste suore a illascivir traete / e con cetra impurissima movete / Febo a trescar sul giogo suo bifronte / sozzi profanatori indegni ed empi / sgombrate fuor del santo luogo...»).

23 La preoccupazione costante di questi letterati è quella della oscurità e dei modi di evitarla: «Mi dica sinceramente (scrive il Magalotti al Redi, op. cit., I, p. 271) se si trova oscurità e se questa sia come il torbido d’un vino, che sia da per tutto a un modo, o pur se sia, come le macchie d’una spera, che si possono contare, e lascino a luogo a luogo degli spazi chiari». E questa preoccupazione non è solamente di carattere letterario, è uno scrupolo morale ed intellettuale derivante dal loro bisogno di sincerità e di fedeltà alla natura delle cose, dei sentimenti, nonché da una esigenza di «popolarità» che coesiste con la loro raffinatezza di uomini colti e che giungerà alle sue conseguenze piú interessanti nel linguaggio del Metastasio. Sicché il Redi esaltando la chiarezza ricorda come l’amore di Galileo per l’Ariosto derivasse anche dalla comprensibilità di quel poeta a tutti chiarissimo ed aperto (Opere, V, p. 68).

24 Si ricordi che tutti questi scrittori, formatisi ed operanti già prima della costituzione dell’Arcadia, furono poi «iscritti ad honorem» dell’accademia romana e ad essa attivamente collaborarono (il Redi stesso fu fondatore della colonia aretina) e le loro poesie figurano nei volumi delle Rime degli Arcadi e le loro biografie nelle Vite degli Arcadi illustri.

25 Nel 1695 il Menzini veniva chiamato da Maria Cristina a far parte della sua corte romana e della sua Accademia reale.

26 B. Croce, Storia dell’età barocca in Italia, Bari, II ed. 1946, p. 416. Il Croce, che ha simpatia per il Menzini, «letterato di buon gusto» che «sapeva trovare le parole giuste per le cose che osservava» (p. 415), non considera però l’importanza della sua posizione fra barocco ed Arcadia, da cui acquistano maggiore interesse storico anche le sue piccole prove poetiche in cui Croce ritrova le «virtú» sopraccennate, e, giustamente, anche «lo scarso suo fiato».

27 La posizione del Menzini rispetto al distacco dal barocco – per quanto cosí netta e ben piú consapevole di quella di un Redi che manca di un’esplicita, precisa polemica – si distingue però da quella piú drammatica di altri scrittori di altre regioni per cui la «conversione» dal barocco al buon gusto è momento essenziale, e persino ingrandito e sottolineato dai loro biografi arcadici (si pensi al caso del Guidi per il quale il Martello fantasticava di una malattia causata dall’intimo contrasto fra l’educazione barocca e la vocazione al rinnovamento!), proprio perché la sua stessa educazione fiorentina era stata fuori dei veri termini barocchi, sicché egli poteva nella prefazione alle Elegie considerare con soddisfazione «l’essersi potuto sin dal principio segregare dalla corruttela del secolo. Perché ad alcuni altri, per andare avanti, è stato bisognevole tornare addietro; ed alcuni non han trovato modo di togliersi dal depravato costume» (Opere, II, p. 263). Dove si può coglier l’orgoglio di un letterato che rivede il proprio svolgimento come naturale, spontaneo e sicuro (e forse un accenno polemico alla ben diversa situazione del Guidi suo rivale nell’Accademia di M. Cristina), e che considera il proprio «buon gusto» come frutto di un accordo fra vocazione ed educazione congeniale (non di atti di volontà e di influenze esterne), di atteggiamenti mutuati da una tradizione che egli sentiva coerente e centrale proprio nell’ambiente culturale e letterario di cui egli era il rappresentante piú avanzato e cosciente, l’autorizzato interprete.

28 «Vorrebbesi dunque far sí che l’acquisto delle belle arti servisse non alla superbia, ma alla carità, non all’inquietudine, ma alla tranquillità, non ad una folle jattanza, ma all’uso», dice nel Discorso nel quale si prova che le lettere deon essere congiunte alle morali discipline (Opere, Firenze, 1731, pp. 52-53). Non mancano nelle opere del Menzini movimenti piú risentiti di dolore e di sdegno per la difficoltà dell’uomo onesto in un mondo di relazioni ostili e malevole che lo spingerebbero alla solitudine (dolore e sdegno confortato dalla esperienza dura del letterato non ricco e non nobile, bisognoso di protezione e invidiato e insidiato da piú abili e spregiudicati rivali): si legga il trattatello Il misantropo, rimasto però significativamente interrotto, o si pensi alle Satire che, pur nella loro intonazione letteraria e convenzionale (e in generale piú notevoli per interesse linguistico, e come esercizio di un genere molto valutato in quegli anni, che per veri risultati poetici), rivelano umori veri, moti impazienti ed amari, una personale radice dello sdegno moralistico rivolto del resto proprio contro i vizii che piú separano gli uomini e rompono la loro solidarietà e convivenza. Ma questi sfoghi piú autobiografici cedono, entrando nell’ambito piú illustre dell’attività del Menzini, di fronte ad una piú forte esigenza di civiltà e società di uomini bennati e saggi, di letterati capaci di creare, fra realtà e immaginazione, una società concorde ed eletta quale al Menzini apparve realizzata nell’Arcadia e quale egli rappresentò, in una prosa dolciastra e gracile, in forme idilliche, accademiche, ma non puramente convenzionali, in quella Accademia Tusculana (divenuta poi celebre nelle raccolte delle Tre arcadie) che tante indicazioni notevoli dà sulle ragioni letterarie e socievoli dell’Arcadia, sul valore della finzione pastorale (anticipando certi temi della gustosa rappresentazione poetica di Arcadia reale e Arcadia poetica del Martello), sul valore socievole di una raccolta di letterati che aboliscono caratteristiche di classe e di regione (anche se i «pastori» raccolti nel libro sono in grande prevalenza toscani e romani), sulla tematica della gara di poesia con pittura e musica, e del suo primato di complessità e di disposizione a esprimere organicamente ogni sentimento e realtà, sull’importanza della lingua toscana e dei suoi arricchimenti greco-latini. Nella sua posizione di buon senso si potrebbero rilevare anche altri «anticipi» del Menzini su temi poi ben diversamente sviluppati da scrittori ricchi di interessi teorici e di maggior cultura europea: come l’accenno nell’Arte poetica ad un rinnovamento del buon gusto italiano che non debba però né attendere né meritare i rimproveri francesi («Non aspettar Boelò che dalla Senna / t’additi il buon sentier»), che è un anticipo, alla buona, della polemica Orsi-Bouhours.

29 Opere, IV, p. 53 ss.

30 V. Lettere, nel vol. III delle Opere, p. 209, 211, 213 ecc.

31 V. lettera del 23 giugno 1682 al Semenzi (Opere, III, p. 277) e le varie lettere al Del Teglia. Le lettere al suo discepolo e amico Francesco Del Teglia potrebbero costituire un vero e proprio trattatello sulla educazione letteraria – fra stile ed educazione dell’animo – caratteristica di questa prima fase d’Arcadia.

32 Al Del Teglia, 3 dicembre 1690, Opere, III, p. 304.

33 Al Del Teglia, 8 aprile 1690, Opere, III, p. 296.

34 Nella satira IV si legge «il Bembo e il Casa ecc....». La sostituzione del Di Costanzo è l’effetto di una chiara concessione del Menzini alle preferenze del circolo romano intorno al Leonio e al Crescimbeni, grandi fautori del leggiadrissimo Di Costanzo come modello di petrarchismo piú rilevato e animato proprio in quel finale del sonetto che rappresenta le preoccupazioni di dosatura, fra rifiuto del forte scoppio concettistico ad effetto dei barocchi e paura di un appiattimento, di uno smorzamento prosastico, nelle varie maniere prearcadiche e di prima Arcadia. Il Menzini, come gli altri, voleva un rilievo finale (in contrapposizione con quello barocco di ogni strofa) e temeva il lonzo e il melenso (per usare le espressioni del Redi), ma mostrava caratteristiche esitazioni di un gusto piú lineare e sobrio di fronte al píú deciso rilievo brillante dei sonettisti romani, come mostrano alcune sue lettere al Del Teglia in cui incoraggia il discepolo a cercar nel finale «quel calzante che piú per uso che per ragione si desidera», quel rilievo nella chiusa dei sonetti «che debba lasciare qualcosa che segga nell’animo di chi ascolta», riconoscendo che «questo in oggi è uno dei suoi particolarissimi pregi» (lettere del 1 marzo e aprile-maggio 1691, Opere, III, p. 308). Quell’in oggi rivela piú una concessione all’uso moderno che una piena convinzione personale ed è circondato sempre dall’avvertenza di seguire quest’uso moderno «un poco, dico un poco».

35 Nel Menzini si precisa il nuovo culto del Petrarca e addirittura per lui la storia del fiorire, della decadenza e della ripresa del buon gusto poetico è legata alla fortuna del Petrarca: «hanno gli arcadi il nostro maggior lirico alle loro imitazioni proposto e coloro altresí che ne’ tempi piú bassi, non sperdendo di vista un lume sí chiaro, ai riflessi di Lui, a quel nuovo e bel pianeta si accesero» (Accademia Tusculana, in Opere, III, p. 135). Non occorrerà qui insistere sul fatto che il petrarchismo del Menzini, come in genere il petrarchismo arcadico, svuota il suo modello esemplare del suo intimo dramma e usufruisce del suo insegnamento stilistico e della sua analisi psicologica con un’eclettica mescolanza di altri esempi (nel caso del Menzini il Tasso piú idillico e il Chiabrera). Sul petrarchismo arcadico, sulla sua importanza di educazione stilistica e psicologica, sulla varietà delle sue interpretazioni rimando al capitolo sul Manfredi.

36 Il tema delle stagioni, cosí congeniale allo spirito arcadico e di primo Settecento (si pensi a Metastasio e Rolli, a Vivaldi e poi, piú tardi, a Haydn), è ben sviluppato in alcune pagine assai piacevoli della Accademia Tusculana (Opere, III, pp. 146-147), che rilevano in quella costante vicenda l’incontro di libertà e regolarità naturale e il piacere rasserenante che l’animo ne ricava, lo stimolo a vivere un ritmo ordinato e spontaneo e a cercar di trasporlo in una poesia che di quella vicenda rifletta l’ordinata regolarità, la varietà piacevole e sempre rinnovata, nel suo fondo costante, dall’animo che la rivive.

37 Il Crescimbeni loda l’esemplarità dei sonetti pastorali del Menzini in cui questi ci avrebbe dato «Teocrito in piccolo, ma non meno utile, bello, o grazioso del grande». Dove è, tra l’altro, tipica questa lode per la «riduzione» di un classico in misure arcadiche, nel gusto miniaturistico arcadico. E nel libro IV, cap. 8°, dei Commentari all’istoria della volgar poesia loda in questi sonetti la vena morale che accresceva il pregio della grazia pastorale e della perfezione stilistica. Motivo (quanto mai esagerato nel tipico ingrandimento delle lodi dei critici arcadici) che anche il Muratori sottolinea, parlando per il sonetto «Dianzi io piantai» di «un certo vero nuovo, pensieri solidi e naturali», mentre insieme accentua «un bel concatenamento di tutto» e «il delicato genio di alcuni epigrammisti greci» che crede di sentirvi (Della perfetta poesia, ed. Milano, 1821, IV, p. 114). Come sempre in Arcadia, questi giudizi sono frutto insieme di un rilievo delle qualità dell’autore e di una certa personale aggiunta del critico che sviluppa i suoi desideri in sede di poetica.

38 U. Foscolo, Opere, ed. naz., VIII, p. 141.

39 Questa parola usata qui con una lieve sfumatura di ironia (rilievo e satira dei pensieri bellicosi) ci richiama ad un’altra esperienza del linguaggio di fine Seicento che è insieme ripresa di forme chiabreresche ed espressione di uno sfogo di creatività linguistica piuttosto accademica e cruscante, specie nei ditirambi, dove la correttezza cede ad una «ardenza singolare di spirito» che «ama voci travolte, nuove e risentite» (Arte poetica, libro IV). È su questa direzione (sperimentata dal Menzini in certi ditirambi dell’Accademia Tuscolana e poi, sull’esempio illustre del Redi, dal Crescimbeni) che il linguaggio arcadico usufruisce anche di quel gusto di parole composte, con derivazioni dal greco, a cui contribuí specialmente il Salvini con le sue traduzioni, e con una ripresa del classicismo chiabreresco.

40 Aure lievi odorate,

figlie dell’alba amate,

che al ventolar dell’ali

lusingate i mortali;

il volo, aure, volgete,

colà dove vedete

quella barchetta, quella

spalmata navicella,

che, come il vello d’oro,

sen porta il mio tesoro.

Voi, d’intorno alla prora,

quai d’intorno all’aurora,

aure lievi odorate,

a suo favor spirate.

E in mar, che lieto ondeggia,

a suo governo seggia,

d’Idalia il nudo arciero,

non crudo e non severo,

non pien d’orgoglio antico,

e non di frodi amico,

ma sia ’n volto ridente,

e la sua face ardente

aggia nelle pupille,

da cui vibri scintille,

che a questa navicella

sian Cinorusa, e Stella.

Ma se volesse, oh Dio!

il vago Idolo mio,

non piú far qui ritorno,

aure nunzie del giorno,

aure lievi odorate,

il volo, ohimè, fermate,

o pur, quasi pentito,

lo rivolgete al lito.

41 Una singolare riprova di come la piú genuina ispirazione arcadica volgeva istintivamente intenzioni di poesia alta e drammatica ad espressioni melodiche e melodrammatiche (e quante volte nel Settecento arcadico e non solo arcadico ispirazione e vocazione naturale e storica deforma e travolge aspirazioni e velleità), è offerta, ad es., dalla nota canzone autobiografica della Paolini Massimi (Fidalma Partenide) che, pur nella chiara dipendenza dal Guidi e nella sua sincera volontà di drammatica rappresentazione di una vita infelice, finisce per concretarsi in chiare impostazioni da melodramma, in sfogo di canto patetico, in moduli miniaturistici, come mostrerò in altre pagine dedicate a questo particolare esempio dello svolgimento della poetica arcadica dopo i tentativi di poesia grande e solenne o di espressione mitica e morale rappresentati da un Guidi e da un Maggi: tentativi ripresi piú tardi, anche attraverso una delle «maniere» del Frugoni, nel secondo Settecento in zona neoclassica (su cui rimando al mio studio, Aspetti della poetica neoclassica alla fine del Settecento, II, «La Rassegna della letteratura italiana», 1954, pp. 36-52).

42 La valutazione settecentesca è ancora viva nell’Alfieri che, prendendole a modello delle sue Odi all’America libera, diceva «bellissime e nobili» le odi storiche del Filicaia (Vita, ed. Fassò, I, p. 227) e nel Foscolo che nei Vestigi della storia del sonetto italiano lodava il Filicaia come lirico di «stile sublime», meno immaginoso, ma «piú profondo nell’arte» del Guidi. E se all’inizio dell’800 si possono trovare un pieno dissenso e una interessante distinzione fra oratore e poeta nel Parnaso italiano del Torti (ed. Firenze, 1828, II, p. 169) e la forte limitazione del giovane Leopardi (Zibaldone, ed. Flora, I, pp. 35-36), ancora l’Emiliani-Giudici reputava le canzoni per l’assedio di Vienna «bellissime fra le belle che possiede la poesia italiana» (Storia della letteratura italiana, Firenze, 1855, II, p. 242).

43 Anche Maria Cristina nella sua lettera del 12 agosto 1684 (in Filicaia, Opere, Venezia, 1771, I, p. XX) mentre esaltava il poeta degno di celebrare Alessandro Magno, l’emulo dei classici, la reincarnazione dell’«incomparabile Petrarca», «ma senza i suoi difetti!», lodava soprattutto la sua arte, il suo «giudizio» il suo «bellissimo e purissimo stile», la trasposizione delle bellezze della «prosa» (chiarezza, ordine, comprensibilità) nella poesia. E il Muratori nella Perfetta poesia, riconoscendo nelle canzoni del Filicaia il suo ideale di poesia nutrita di «sodi pensieri» («contengono cose e non solo parole») e la saggia temperanza di ingegnosità e naturalezza, sottolineava con cura come la forza del pensiero trovasse nel Filicaia uno stile adeguato, robusto, ma soprattutto «condito dalla vaghezza e purità della lingua», organico e «giudiziosissimo» nella «architettura del tutto», nella «giudiziosa condotta ed unione».

44 Il caso del Maggi è quanto mai istruttivo per l’evoluzione del gusto arcadico dalla prima fase di accettazione di una posizione di distacco dal barocco anche in forme stilistiche piú dure e approssimative e la prevalenza successiva di piú esigenti preoccupazioni di stile «poetico», alla luce delle quali il Maffei poteva distinguere, nella lettera al Garzadoro, fra l’importanza del Maggi come efficacissimo stroncatore del gusto barocco nell’Italia settentrionale e la sua arcaicità e incapacità a costituire un modello per i nuovi poeti dell’Arcadia matura (v. in proposito M. Fubini, Dal Muratori al Baretti, Bari, 1954, pp. 143-145).

45 B. Croce, Un giudizio del Macaulay sul Filicaia, in Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, 1949, pp. 326-333.

46 «Sembra non parli, ma canti, anzi urli, col pugno teso, gli occhi stralunati, gli atti convulsi» (Storia della letteratura italiana, Bari 1949, II, p. 202).

47 Vena malinconica già segnalata dal Flora (Storia della letteratura italiana, Milano, 1940, II parte, pp. 726-727) e verificabile anche fuori delle poesie (dove il «compianto» è assai frequente anche se appesantito spesso da caratteri di cerimonia ufficiale e di esaltazione retorica, di riscatto elogiativo dalla morte, oblio de’ gran nomi), nelle lettere familiari che, specie nella vecchiaia, hanno espressioni sincere di malinconico sentimento della solitudine crescente nella scomparsa di amici e persone care (v. lettere nel III vol. delle Opere, pp. 110, 111, 116), di tristezza pensosa, ma rassegnata entro quell’aura di compostezza dignitosa e distaccata cui collaborava coerentemente la saggezza del «filosofo» e del «cristiano», l’auto-dominio del gran signore e la naturale disposizione filicaiana ad evitare ogni eccesso sentimentale.

48 Un ritratto del Filicaia ben intonato alle esigenze agiografiche della prima Arcadia e al rilievo delle qualità «esemplari» del lirico del sublime e del personaggio d’autorità nelle condizioni particolari dell’ambiente fiorentino e delle nuove richieste di saggezza, moralità, pietà religiosa (ma intima e a suo modo ragionevole e piú saggia che mistica), si può ricostruire nella Vita del Filicaia scritta da T. Bonaventuri dopo la sua morte (in Vite degli Arcadi illustri, I, Roma, 1708 e nelle Opere del Filicaia, Venezia, 1771, I). In quella Vita l’elogiatore sottolinea ed accorda le ragioni della esemplarità filicaiana alla luce dei valori piú apprezzati in questa fase, e in questa direzione piú ufficiale e convenzionale del rinnovamento prearcadico. Anzitutto «perfetto discernimento» morale e letterario, vocazione alla lirica alta giustificata anche dalla sua natura di uomo «bennato», nobilissimo e sorretto dall’esercizio di alte virtú pubbliche e private di uomo destinato a posizioni di responsabilità sociale e ufficiale. Ma (ed ecco l’accordo che nella vita e nel carattere corrisponde all’accordo fra i toni alti e la prudenza e naturalezza dello stile e della «condotta») questo decoro di personaggio (il governatore di Volterra e di Pisa, il senatore mediceo), che sembra naturale coefficiente della sua figura di poeta storico e corrispondente dei sovrani e dei potenti, si colora di componenti piú caratteristiche dell’ideale di quest’epoca. Che, sotto l’ufficialità e il conformismo bigotto rafforzato in Toscana sotto il regno di Cosimo III (donde la risentita satira del Gigli e lo sviluppo del tema del bacchettone nel capitolismo cicalatorio alla Fagiuoli), ha pure un bisogno di intimità spirituale e morale che è essenziale (con gradazioni diverse fra sincerità e conformismo) alla fine dell’età barocca, anche se questi elementi saranno volti sempre piú a vivi valori mondani di società attiva e razionalistica e il «savio» di questa epoca (tanto piú lieto e vitale nel Redi, tanto piú compassato e pur pensoso nel Filicaia) diverrà il «cittadino onorato» l’«uomo dabbene» della civitas razionalistica e illuministica e magari l’«avventuriero onorato» del Goldoni. Il senatore mediceo è cosí rappresentato nelle sue qualità di saggezza, di pietas cristiana, di studioso di filosofia morale e di teologia, di cultore dell’amore onesto, ma anche di odiatore dell’ipocrisia, di ogni abuso e orgogliosa prepotenza, di padre tenero e amico fedele. E se l’elogiatore accentua il suo amore di solitudine concentrata per recuperarvi l’origine della sua vocazione di poesia meditativa e spirituale, egli si affretta anche a precisare che non era «rozzo ed austero» (lontano quindi dall’orgogliosa erezione del pindarismo secentesco) ed anzi «era affabile, generoso, e con una propria e naturale grazia condiva sí tutte le sue operazioni che andava di pari il brio e la modestia, lo spirito e la saviezza». Cosí come nel letterato univa la solidità dello studio filosofico e morale e l’assidua lettura dei classici greco-latini e italiani, la profondità delle sublimi intuizioni e l’instancabile elaborazione stilistica, le nuove preoccupazioni di lingua, dimostrate dalle numerose varianti delle sue poesie, e riportate dagli editori delle sue opere come riprova esemplare di questa cura che tutto il Settecento riconobbe come uno degli aspetti essenziali del rinnovamento arcadico contro lo sperpero di inventività approssimativa e indisciplinata che si accusava nel barocco. Naturalmente l’elogiatore arcadico accentua l’assoluta novità anche del linguaggio del Filicaia, in cui invece residui di elementi barocchi sono evidenti (e li notò acutamente il Leopardi nel luogo citato dello Zibaldone); ma al solito essi sono smorzati e inseriti in una costruzione non piú barocca, modificati da una diversa funzione e da una moderazione che svuota sostanzialmente la pura e preminente ricerca dell’arguto, del brillante, dell’ingegnoso, delle figure immaginose, su di una linea semmai di tradizione chiabreresca e cioè di primo Seicento non marinistico e concettistico e con incontri con elementi tardobarocchi (specie nell’intonazione religiosa e morale) che pur debbono distinguersi dal «barocco» che la prima Arcadia combatteva nell’accezione morale e letteraria della «lascivia» e del «malgusto».